Inizierò a parlare di questo romanzo facendo due premesse: l’autrice è una persona davvero squisita, con cui è nata una bella amicizia virtuale, e questo, che è il suo secondo romanzo, è un romanzo autopubblicato. Non starò qui a dilungarmi sui pro e sui contro del self (sempre più pro e sempre meno contro, per quanto mi riguarda) ma vorrei dire che, se Manuela non avesse fatto questa scelta, non sarei qui oggi a parlarvi del suo libro, e quindi ben vengano gli autori che credono in se stessi e valorizzano il frutto dei loro sforzi con le loro sole forze^^
Ma parliamo di Training in Love.
È un romanzo molto dolce, per quanto riguarda la storia d’amore, ma anche complesso e, in alcuni punti, sottilmente drammatico. A raccontarci la sua storia è Olivia, la protagonista, Olly per gli amici, anche se di amici veri, Olly ne ha ben pochi. Lei è una ragazza buona, forse troppo, paziente, davvero troppo, e rassegnata a vestire i suoi panni oversize all’insegna di una non-vita in cui le emozioni, quelle vere, sembra non riescano a valicare la barriera di carne che lei stessa si è costruita attorno in anni di abbuffate solitarie. Fino al giorno in cui il desiderio di avere una vita normale, la vita di una ragazza che non si preclude tutto ciò che di bello può capitarle a causa del costante disagio provocato dal proprio corpo, le fa alzare la testa e prendere la decisione, irremovibile, di dimagrire. Olly, che è una persona saggia grazie alla gran quantità di libri mandati giù insieme alle barrette al cioccolato e alle lacrime, nei suoi anni di solitudine, sa che questo progetto, così importante eppure così delicato, rischia di trasformarsi in un clamoroso buco nell’acqua senza l’aiuto di uno specialista, in grado di sostenerla e motivarla. Perché per perseguire certi obbiettivi la spinta interiore non basta, serve un aiuto esterno. E così, ecco comparire nella vita di Olly Andrea, un Dio del sole, il personal trainer che tutte le ragazze vorrebbero avere al loro fianco: bello come un Apollo, fisicato come il David di Michelangelo e integerrimo nel suo lavoro.
Ma, soprattutto, Andrea è di una gentilezza e una disponibilità che non ti aspetteresti mai e poi mai da un tipo così, uno a cui basta un’occhiata per stendere una ragazza. E qui, devo ammettere che Manuela mi ha piacevolmente sorpreso, perché era molto facile scadere nel cliché del ‘prima ti odio e poi ti amo’, puntando tutto sulle differenze fisiche tra i due personaggi e dando vita a un teatrino fatto di battutine e battutacce, screzi e tiri mancini, fino all’immancabile happy end in cui il bello di turno si rende conto che la ragazza cicciotella è tutto sommato più intelligente e vispa delle bambole svampite che frequenta lui. E si redime per lei. Era molto facile fare di Andrea uno fissato con il fisico statuario e le apparenze e di Olivia la ragazza che lo convince che le persone belle, belle davvero, sono quelle belle dentro. E invece no. Perché, in questo caso, è Andrea a essere un passo avanti, a sapere che sono i drammi che viviamo dentro a riflettersi su ciò che appariamo fuori e ad agire di conseguenza nei confronti di una reticente Olly, troppo spaventata per aprirsi a qualcuno, per lasciarsi andare, per lasciarsi… toccare. E questo è uno dei motivi per cui mi è piaciuto questo libro. Il rapporto tra Olivia e Andrea è reale, lento, progressivo. Si avvicinano, si studiano, si comprendono, lentamente fanno amicizia, gradualmente si aprono l’uno all’altra. Lui diventa un po’ il suo angelo custode, la prende per mano, la guida, la sostiene quando sembra che stia per cadere, la protegge da tutti, anche dagli errori che, un giorno, potrebbe commettere per leggerezza. Manuela non calca mai i toni, la storia procede lieve, ma, come dicevo all’inizio, alcuni episodi recano una sfumatura di dramma, che poi è il dramma di Olly: il suo non riuscire ad accettarsi. E, benché Andrea sia l’uomo che tutte vorrebbero avere al proprio fianco, è Olivia la protagonista indiscussa della storia. E, benché sì, questo sia un rosa, un romanzo che parla d’amore, è prima di tutto la storia di Olivia con se stessa a riempire le pagine. La sua ricerca interiore, la ricerca di chi si era perso e riesce a ritrovarsi. Tratteggiata con maestria da un’autrice che deve averla più a cuore di quanto il lettore riesca a cogliere, Olly buca la pagina, affiora dalla carta, personaggio tondo al cento per cento, con la sua forza e la sua fragilità. E parla con noi, si racconta: il divorzio dei genitori, le liti con la madre, figura ingombrante e dispotica nella vita di questa figlia così impacciata; e, ancora, le abbuffate di notte, di nascosto, gli scherzi brutali dei compagni di classe, la superficialità della gente. La difficoltà di creare un muro invalicabile tra sé e il mondo e l’ancor più difficile smantellamento dello stesso. Perciò sì, romanzo rosa, ma, forse, anche un po’ romanzo di formazione, perché seguiamo il cambiamento della protagonista, la sua ricerca della felicità tifando per lei: da crisalide a farfalla, contando su una grande forza di volontà e su un personal trainer davvero insostituibile. E alla fine il messaggio che passa sarà anche scontato, ma sempre molto attuale: non puoi amare qualcuno se prima non impari ad amare te stesso.
E potrei concludere qui questa recensione, davvero, ma dato che prolissità è il mio nome, e considerando che Manuela mi ha chiesto di essere sincera parlando del suo libro, mi soffermerò su un paio di cose che, secondo quello che è il mio personale parere, stonano un po’.
La prima cosa che mi è saltata agli occhi è il modo in cui la storia è narrata, ovvero in prima persona al tempo presente. È la scelta più temeraria, per quanto mi riguarda, perché rischia di far apparire il testo monocorde (faccio, dico, penso…) Manuela la gestisce molto bene, ma in alcuni punti non ho potuto fare a meno di notare l’eccessiva colloquialità con cui Olly si esprime (Aspetto fuori di fianco alla mia macchina, mandando un messaggio a Linda che sono fuori.) Ecco, per quanto questa scelta stilistica abbia il merito di farci sentire il personaggio molto vicino, di farci sentire parte dei suoi pensieri, trovo che non sia una scelta azzeccata perché, nonostante tutto, la scrittura ha dei codici diversi dal parlato (Aspetto fuori di fianco alla mia macchina, mandando un messaggio a Linda per avvisarla che sono fuori.) Spero di essermi fatta capire^^
L’altra cosa è in realtà molto banale, e sono i refusi, soprattutto nelle prime pagine. Ma questa è davvero un’inezia risolvibile con una ulteriore revisione!
E dunque... a quando il prossimo romanzo, Manuela?
lunedì 14 luglio 2014
domenica 25 maggio 2014
Il Maggiordomo
Forse non tutti sanno ( e perché mai dovrebbero, in fondo?) che Vittorio Fubini non è il primo maggiordomo di cui scrivo. C'è stato un altro maggiordomo, esattamente un anno prima, che mi ha fatto vincere un premio letterario. Grazie a lui ho potuto vedere per la prima volta le mie parole stampate su carta e inserite in un libro. E' un libro piccino, una raccolta di racconti intitolata 'Quella sera a cena', che era il tema del concorso. Cercando tutt'altro l'ho riesumato dai recessi del computer e, dopo qualche riflessione, mi sono detta 'Perché non condividerlo? Magari a qualcuno interessa.' O anche no. Ad ogni buon conto, eccolo qua:
Il maggiordomo
«Questa sera, a cena, desideriamo che serviate dell’aragosta, Augusto.»
Il maggiordomo sbatté le palpebre, sorpreso. L’ambito crostaceo non si poteva certo definire una pietanza a buon mercato, e le signorine tiravano la cinghia ormai da troppi mesi perché la richiesta non sembrasse sospetta. Fu per quello, soprattutto, che si azzardò a interpellarle sul motivo di quella particolare pretesa.
«Posso domandare se le signorine hanno ospiti a cena?» chiese, con formale garbo.
Melinda, la più anziana delle tre vecchiette che serviva ormai da immemorabile tempo, sollevò l’occhialetto con il manico traforato, strizzando gli occhi ormai miopi.
«Ha ragione, Gertrude, gli stipiti fanno pena! Ma perché dovete farcelo notare proprio adesso, Augusto?»
Il domestico sospirò, rassegnato.
«Ho chiesto, se le signorine hanno ospiti a cena» ripeté, con voce stentorea.
Gertrude sobbalzò e Carlotta fece cadere a terra un ferro da calza.
«Santi numi, Augusto! Che bisogno avete di parlare a voce tanto alta? Non siamo mica sorde, sapete?» esclamò Gertrude, contrariata.
Carlotta si era piegata a cercare il ferro, e la sua schiena aveva prodotto uno strano schiocco, niente affatto rassicurante.
Augusto, solerte, si chinò a raccoglierlo e glie lo porse pieno di premura.
«Oh, grazie, caro.» Carlotta gli sorrise. Un sorriso in cui rimanevano ben pochi denti di cui fare sfoggio, ma caldo e confortante.
«Sapete, non abbiamo nessun ospite a cena» gli rivelò, tentando inutilmente di ritrovare il punto che aveva perso. «Ma vogliamo che sia una serata speciale. Questo pomeriggio è arrivata una lettera dal dottor Marangoni: si sono liberati tre posti alla casa di riposo e da domani andremo a stare lì.»
Al maggiordomo mancò l’aria.
«Le signorine…se ne vanno?» domandò, con un filo di voce.
«Sì, Augusto. Alla fine sembra proprio che dovremo lasciare questa casa. Oh, ma non vi preoccupate: vi lasceremo una lettera di raccomandazione con delle ottime referenze. Lavorate per noi da almeno…» Gertrude assunse uno sguardo pensieroso, che le fece aggrottare le rade e candide sopracciglia. «Da quanti anni lavorate in questa casa, Augusto?»
«Cinquantasette anni» confermò il maggiordomo, a cui improvvisamente pareva che la voce non fosse nemmeno la sua.
«Ebbene, cinquantasette anni di puntuale ed efficiente servizio. Ma tutte le cose devono avere una fine.» Gli occhi di Gertrude erano velati di malinconia.
Carlotta si guardò attorno con aria triste e il domestico seguì il suo sguardo. Il piccolo salottino con le poltrone di chintz, illuminato dall’abatjour liberty che diffondeva una luce spettrale ma intima, la vetrinetta con i cerbiatti di porcellana, che lui spolverava ogni giorno con tenera premura, il servizio da tè con le tazzine sbeccate, i centrini di pizzo ricamati dalle instancabili dita delle sue signorine. Stava davvero per finire ogni cosa? Così pareva.
«Dirò alla cuoca di servire aragosta, per cena, se le signorine lo desiderano» esclamò, rigido e impettito; la sua espressione era quella di qualcuno costretto a masticare della segatura. Si esibì in una rapida riverenza e, con altrettanta rigidità, lasciò la stanza.
Quella sera, a cena, la tavola venne imbandita alla perfezione. La cuoca ad ore aveva fatto del suo meglio, e con solo poche ore di preavviso: tre enormi aragoste troneggiavano al centro della tavola, i dorsi rossi e lucidi e le lunghe chele adagiate tra l’insalata e le patate. Un succulento profumino si sollevava in fragranti volute, mescolandosi al profumo dei fiori freschi del centro tavola.
Era tutto lì, illuminato dalla luce tremolante dei tre imponenti candelabri d’argento, rispolverati da lui per la grande occasione.
Le tre sorelle presero posto commosse, ricordando le cene di gale della loro gioventù e al maggiordomo parve, per un breve istante, di scorgere sui loro volti accartocciati il riflesso delle donne che erano state: Melinda, la bella. Gertrude, l’orgogliosa, e Carlotta, la dolce e comprensiva Carlotta. Il tempo era passato come vento impetuoso, soffiando neve sui loro capelli e deformando i loro aspetti. Eppure, la scintilla della vita era rimasta ardente in loro, benché sepolta sotto la cenere della vecchiaia.
Erano state tre donne straordinarie, Augusto lo ricordava bene. Eppure, questa loro eccezionalità non era stata sufficiente a garantire alle tre sorelle dei matrimoni vantaggiosi. Gli anni erano passati, e le tre sorelle, ormai zitelle, non si erano mai allontanate l’una dall’altra. Erano rimaste nella casa della loro infanzia, e non avevano avuto altri che lui, per tutti quegli anni.
Lui non le aveva mai abbandonate. La sua era una fedeltà che andava oltre il senso del dovere: Augusto si considerava parte della famiglia. Sentiva di appartenere a quella casa tanto quanto gli argenti che ogni giorno lucidava. Separarsene, significava separarsi dalla sua stessa vita. E lo stesso, era convinto, valeva anche per le sue vecchiette.
Casa di riposo? Non aveva mai sentito nulla di più squallido. Per quale motivo le signorine non avrebbero dovuto voler passare ciò che restava loro da vivere nella loro amata casa? Non le aveva forse servite bene, in tutti questi anni? Per quale motivo le cose dovevano cambiare?
Augusto si poneva queste domande mentre rimetteva il tappo alla bottiglia di liquore, disponendo quattro bicchierini sul vassoio d’argento. Le padrone erano solite bere un bicchierino di Porto, dopo cena. Dato che si trattava dell’ultima sera, il maggiordomo riteneva di potersi permettere di unirsi a loro. Era certo che non gli avrebbero negato questa ultima, piccola, gentilezza.
Dopo aver chiuso lo stipo, si guardò attorno, nella cucina deserta. La cuoca ad ore che veniva dal paese se ne era già andata. Un tempo, la cucina era stata un luogo brulicante di personale, in cui le cameriere si scontravano tra di loro nella fretta di servire le numerose portate. Augusto ricordava bene i tacchi delle loro scarpe che rumoreggiavano su e giù dalla scala di servizio, l’allegro chiacchiericcio che le accompagnava e i tintinnii di stoviglie e posate. Ora, quel luogo era più silenzioso di una cripta, escluso un grosso moscone nero che, non riuscendo a trovare l’uscita, cozzava stupidamente contro il vetro della finestra.
Una casa piena di fantasmi.
Anno dopo anno, le signorine erano state costrette a far fronte ai debiti della tenuta dimezzando il personale, fino a rinunciarvi completamente. Solo lui era rimasto, adeguandosi ad un compenso che non rappresentava nemmeno la metà di quello percepito negli anni d’oro, prima che la guerra arrivasse e spazzasse via ogni cosa, cambiando radicalmente la società. Ad Augusto i soldi non interessavano, non quanto gli interessava restare e continuare a svolgere il lavoro per cui era nato. Quella era casa sua, e Augusto non se ne sarebbe andato.
Afferrò il vassoio d’argento, sollevandolo dal tavolo. Per un breve istante, nel lucido metallo del portavivande scorse il riflesso di un uomo ricurvo su se stesso, i radi e canuti capelli tenuti fermi dalla brillantina ormai secca e le guance cascanti.
Era lui, quello? Non si era reso conto di essere tanto invecchiato, anche se, a pensarci bene, ricordava quasi tutto della vita delle signorine, comprese le bambole con cui giocavano da bambine.
Doveva essere in quella casa da ben più di cinquantasette anni, dunque. La memoria spesso lo ingannava.
Portò il vassoio nel piccolo salottino, dove si erano ritirate le tre donne.
«Ottimo lavoro, Augusto. La cena era ottima…mai mangiata un’aragosta tanto buona, da che mi ricordi» disse Gertrude, facendosi aria con il ventaglio.
«Aria losca? Chi è che ha l’aria losca?» chiese Melinda, guardando la sorella con espressione interrogativa.
«Aragosta, cara. Oh, Augusto, mille grazie davvero per questa cena…» intervenne Carlotta, con dolcezza. «Ci mancherete così tanto…»
Augusto deglutì un groppo amaro. Poi, cercando di tenere a bada l’emozione, propose di unirsi a loro per un ultimo brindisi.
«Con piacere. Dopotutto, ormai siete uno di famiglia: siete l’uomo di casa» assentì Gertrude.
Levarono alti i bicchierini. Il liquido ambrato riluceva attraverso il vetro, solo appena sporcato dalla polvere grigia del topicida. Ma i loro occhi miopi non vi fecero caso.
L’indomani, gli infermieri della casa di riposo le trovarono sul divano, accasciate su se stesse, i ferri da calza ancora in mano.
Il maggiordomo era sdraiato davanti alla porta, come a voler impedire a chicchessia di entrare o uscire, in un’eterna e fedele veglia.
Il maggiordomo
«Questa sera, a cena, desideriamo che serviate dell’aragosta, Augusto.»
Il maggiordomo sbatté le palpebre, sorpreso. L’ambito crostaceo non si poteva certo definire una pietanza a buon mercato, e le signorine tiravano la cinghia ormai da troppi mesi perché la richiesta non sembrasse sospetta. Fu per quello, soprattutto, che si azzardò a interpellarle sul motivo di quella particolare pretesa.
«Posso domandare se le signorine hanno ospiti a cena?» chiese, con formale garbo.
Melinda, la più anziana delle tre vecchiette che serviva ormai da immemorabile tempo, sollevò l’occhialetto con il manico traforato, strizzando gli occhi ormai miopi.
«Ha ragione, Gertrude, gli stipiti fanno pena! Ma perché dovete farcelo notare proprio adesso, Augusto?»
Il domestico sospirò, rassegnato.
«Ho chiesto, se le signorine hanno ospiti a cena» ripeté, con voce stentorea.
Gertrude sobbalzò e Carlotta fece cadere a terra un ferro da calza.
«Santi numi, Augusto! Che bisogno avete di parlare a voce tanto alta? Non siamo mica sorde, sapete?» esclamò Gertrude, contrariata.
Carlotta si era piegata a cercare il ferro, e la sua schiena aveva prodotto uno strano schiocco, niente affatto rassicurante.
Augusto, solerte, si chinò a raccoglierlo e glie lo porse pieno di premura.
«Oh, grazie, caro.» Carlotta gli sorrise. Un sorriso in cui rimanevano ben pochi denti di cui fare sfoggio, ma caldo e confortante.
«Sapete, non abbiamo nessun ospite a cena» gli rivelò, tentando inutilmente di ritrovare il punto che aveva perso. «Ma vogliamo che sia una serata speciale. Questo pomeriggio è arrivata una lettera dal dottor Marangoni: si sono liberati tre posti alla casa di riposo e da domani andremo a stare lì.»
Al maggiordomo mancò l’aria.
«Le signorine…se ne vanno?» domandò, con un filo di voce.
«Sì, Augusto. Alla fine sembra proprio che dovremo lasciare questa casa. Oh, ma non vi preoccupate: vi lasceremo una lettera di raccomandazione con delle ottime referenze. Lavorate per noi da almeno…» Gertrude assunse uno sguardo pensieroso, che le fece aggrottare le rade e candide sopracciglia. «Da quanti anni lavorate in questa casa, Augusto?»
«Cinquantasette anni» confermò il maggiordomo, a cui improvvisamente pareva che la voce non fosse nemmeno la sua.
«Ebbene, cinquantasette anni di puntuale ed efficiente servizio. Ma tutte le cose devono avere una fine.» Gli occhi di Gertrude erano velati di malinconia.
Carlotta si guardò attorno con aria triste e il domestico seguì il suo sguardo. Il piccolo salottino con le poltrone di chintz, illuminato dall’abatjour liberty che diffondeva una luce spettrale ma intima, la vetrinetta con i cerbiatti di porcellana, che lui spolverava ogni giorno con tenera premura, il servizio da tè con le tazzine sbeccate, i centrini di pizzo ricamati dalle instancabili dita delle sue signorine. Stava davvero per finire ogni cosa? Così pareva.
«Dirò alla cuoca di servire aragosta, per cena, se le signorine lo desiderano» esclamò, rigido e impettito; la sua espressione era quella di qualcuno costretto a masticare della segatura. Si esibì in una rapida riverenza e, con altrettanta rigidità, lasciò la stanza.
Quella sera, a cena, la tavola venne imbandita alla perfezione. La cuoca ad ore aveva fatto del suo meglio, e con solo poche ore di preavviso: tre enormi aragoste troneggiavano al centro della tavola, i dorsi rossi e lucidi e le lunghe chele adagiate tra l’insalata e le patate. Un succulento profumino si sollevava in fragranti volute, mescolandosi al profumo dei fiori freschi del centro tavola.
Era tutto lì, illuminato dalla luce tremolante dei tre imponenti candelabri d’argento, rispolverati da lui per la grande occasione.
Le tre sorelle presero posto commosse, ricordando le cene di gale della loro gioventù e al maggiordomo parve, per un breve istante, di scorgere sui loro volti accartocciati il riflesso delle donne che erano state: Melinda, la bella. Gertrude, l’orgogliosa, e Carlotta, la dolce e comprensiva Carlotta. Il tempo era passato come vento impetuoso, soffiando neve sui loro capelli e deformando i loro aspetti. Eppure, la scintilla della vita era rimasta ardente in loro, benché sepolta sotto la cenere della vecchiaia.
Erano state tre donne straordinarie, Augusto lo ricordava bene. Eppure, questa loro eccezionalità non era stata sufficiente a garantire alle tre sorelle dei matrimoni vantaggiosi. Gli anni erano passati, e le tre sorelle, ormai zitelle, non si erano mai allontanate l’una dall’altra. Erano rimaste nella casa della loro infanzia, e non avevano avuto altri che lui, per tutti quegli anni.
Lui non le aveva mai abbandonate. La sua era una fedeltà che andava oltre il senso del dovere: Augusto si considerava parte della famiglia. Sentiva di appartenere a quella casa tanto quanto gli argenti che ogni giorno lucidava. Separarsene, significava separarsi dalla sua stessa vita. E lo stesso, era convinto, valeva anche per le sue vecchiette.
Casa di riposo? Non aveva mai sentito nulla di più squallido. Per quale motivo le signorine non avrebbero dovuto voler passare ciò che restava loro da vivere nella loro amata casa? Non le aveva forse servite bene, in tutti questi anni? Per quale motivo le cose dovevano cambiare?
Augusto si poneva queste domande mentre rimetteva il tappo alla bottiglia di liquore, disponendo quattro bicchierini sul vassoio d’argento. Le padrone erano solite bere un bicchierino di Porto, dopo cena. Dato che si trattava dell’ultima sera, il maggiordomo riteneva di potersi permettere di unirsi a loro. Era certo che non gli avrebbero negato questa ultima, piccola, gentilezza.
Dopo aver chiuso lo stipo, si guardò attorno, nella cucina deserta. La cuoca ad ore che veniva dal paese se ne era già andata. Un tempo, la cucina era stata un luogo brulicante di personale, in cui le cameriere si scontravano tra di loro nella fretta di servire le numerose portate. Augusto ricordava bene i tacchi delle loro scarpe che rumoreggiavano su e giù dalla scala di servizio, l’allegro chiacchiericcio che le accompagnava e i tintinnii di stoviglie e posate. Ora, quel luogo era più silenzioso di una cripta, escluso un grosso moscone nero che, non riuscendo a trovare l’uscita, cozzava stupidamente contro il vetro della finestra.
Una casa piena di fantasmi.
Anno dopo anno, le signorine erano state costrette a far fronte ai debiti della tenuta dimezzando il personale, fino a rinunciarvi completamente. Solo lui era rimasto, adeguandosi ad un compenso che non rappresentava nemmeno la metà di quello percepito negli anni d’oro, prima che la guerra arrivasse e spazzasse via ogni cosa, cambiando radicalmente la società. Ad Augusto i soldi non interessavano, non quanto gli interessava restare e continuare a svolgere il lavoro per cui era nato. Quella era casa sua, e Augusto non se ne sarebbe andato.
Afferrò il vassoio d’argento, sollevandolo dal tavolo. Per un breve istante, nel lucido metallo del portavivande scorse il riflesso di un uomo ricurvo su se stesso, i radi e canuti capelli tenuti fermi dalla brillantina ormai secca e le guance cascanti.
Era lui, quello? Non si era reso conto di essere tanto invecchiato, anche se, a pensarci bene, ricordava quasi tutto della vita delle signorine, comprese le bambole con cui giocavano da bambine.
Doveva essere in quella casa da ben più di cinquantasette anni, dunque. La memoria spesso lo ingannava.
Portò il vassoio nel piccolo salottino, dove si erano ritirate le tre donne.
«Ottimo lavoro, Augusto. La cena era ottima…mai mangiata un’aragosta tanto buona, da che mi ricordi» disse Gertrude, facendosi aria con il ventaglio.
«Aria losca? Chi è che ha l’aria losca?» chiese Melinda, guardando la sorella con espressione interrogativa.
«Aragosta, cara. Oh, Augusto, mille grazie davvero per questa cena…» intervenne Carlotta, con dolcezza. «Ci mancherete così tanto…»
Augusto deglutì un groppo amaro. Poi, cercando di tenere a bada l’emozione, propose di unirsi a loro per un ultimo brindisi.
«Con piacere. Dopotutto, ormai siete uno di famiglia: siete l’uomo di casa» assentì Gertrude.
Levarono alti i bicchierini. Il liquido ambrato riluceva attraverso il vetro, solo appena sporcato dalla polvere grigia del topicida. Ma i loro occhi miopi non vi fecero caso.
L’indomani, gli infermieri della casa di riposo le trovarono sul divano, accasciate su se stesse, i ferri da calza ancora in mano.
Il maggiordomo era sdraiato davanti alla porta, come a voler impedire a chicchessia di entrare o uscire, in un’eterna e fedele veglia.
venerdì 6 dicembre 2013
La camera di sangue, ovvero Barbablù
"In città è considerato un personaggio romantico, avvolto dal mistero. Non ve le immaginate, le voci che circolano? È come se avesse programmato tutto per suscitare quell’effetto: l’accento, la ricchezza, l’aspetto fisico. Le donne lo ammirano da lontano, naturalmente, almeno così dice la mia governante. Gli uomini, invece, non tanto. Lo chiamano Barbablù." (La camera di sangue, Jane Nickerson)
Barbablù è una fiaba per l’infanzia tra le più spaventose, almeno per quanto mi riguarda. Da bambina mi affascinava e inquietava allo stesso tempo, con quel corridoio buio su cui si affacciavano porte proibite, che nascondevano terribili segreti. E quel mazzo di chiavi, che non potevano essere usate, ma che esercitavano sull’ignara moglie di Barbablù un irresistibile fascino. Chi ha letto il mio romanzo Le stanze buie saprà quanto questi elementi (la porta chiusa, le chiavi che rivelano sconcertanti verità, il fascino del proibito) siano temi a me molto cari, che non smettono di incuriosirmi.
(Per chi volesse rinfrescare la memoria, ecco la favola in tutta la sua terrificante bellezza: Barbablù)
Barbablù, è un uxoricida e un serial killer. C’è poco da stare allegri. Ma, allo stesso tempo, è un personaggio che trovo misterioso e complesso, con una natura ambigua e crudele, a tratti stranamente umana. Perché affida alla moglie un mazzo di chiavi chiedendole di non usarle? Vuole metterne alla prova la fedeltà o, semplicemente, avere un pretesto per disfarsi di lei? È un pazzo omicida, o ci sono motivi più profondi a muovere la sua sete di sangue?
Jane Nickerson cerca di rispondere a queste domande e riprende questa favola nel suo romanzo d’esordio, La camera di sangue, in libreria da qualche settimana. Capirete che non potevo non leggerlo!
Soddisfatta di questa rivisitazione? Nì.
La camera di sangue è un romanzo mediocre, con una narrazione zoppicante e, a tratti, fin troppo infantile. La storia, però, è intrigante.
Sophia Petheram, la protagonista, ha diciassette anni quando, dopo la morte del padre, va a vivere con il suo padrino e tutore legale, monsieur Bernard de Cressac, un ricco amico di famiglia. De Cressac è un uomo sulla quarantina, terribilmente affascinante, mostruosamente ricco e quattro volte vedovo. Tutte le sue defunte mogli avevano i capelli del colore delle foglie in autunno, come quelli della giovane Sophia. La ragazza, inizialmente, resta offuscata da tanta ricchezza e opulenza, dai modi galanti e affascinanti del suo padrino, un uomo che ha girato il mondo e che parla con uno stupendo accento francese (a me ha ricordato molto il Jean-Claude della Hamilton^^). Solo con il passare dei mesi inizierà a rendersi conto che qualcosa di torbido e malvagio è celato sotto all’oro e agli stucchi dell’immensa dimora di Monsieur de Cressac. E che lui stesso, dietro i modi affabili e premurosi, nasconde lati di sé sinistri e alquanto spaventosi…
Ambientato nel Sud degli stati uniti alla metà dell’Ottocento, La camera di sangue tocca temi interessanti come la condizione della donna e la fuga degli schiavi verso il Nord tramite la Ferrovia sotterranea, ma solo di sfuggita, e solo superficialmente. Anche i personaggi sono poco approfonditi e, a tratti, fin troppo contemporanei nel modo di parlare e negli atteggiamenti (soprattutto Sophia, molto più simile a un’adolescente dei giorni nostri che a una morigerata signorina vittoriana). De Cressac esce un po’ meglio, ma non buca la pagina come dovrebbe. È di certo un personaggio ricco di fascino, ma è un fascino un po’ greve, poco fine. Un uomo tanto furbo da riuscire ad assassinare tutte e quattro le mogli e a farla sempre franca avrebbe dovuto essere più sottile, secondo me. Più subdolo, ecco.
Insomma, poteva essere un romanzo grandioso, ma la scrittura lo penalizza un po' e anche l’elemento misterioso e inquietante passa in secondo piano, assorbito dalle descrizioni di vezzosi abiti e dalle, spesso frivole, considerazioni della protagonista. Il finale, poi, appare sbrigativo e troppo superficiale, pur mantenendosi perfettamente in linea con la favola. Peccato dunque, perché le intenzioni erano davvero ottime.
Tre stelline e mezzo. Una bella storia, ma poteva essere raccontata meglio.
Barbablù è una fiaba per l’infanzia tra le più spaventose, almeno per quanto mi riguarda. Da bambina mi affascinava e inquietava allo stesso tempo, con quel corridoio buio su cui si affacciavano porte proibite, che nascondevano terribili segreti. E quel mazzo di chiavi, che non potevano essere usate, ma che esercitavano sull’ignara moglie di Barbablù un irresistibile fascino. Chi ha letto il mio romanzo Le stanze buie saprà quanto questi elementi (la porta chiusa, le chiavi che rivelano sconcertanti verità, il fascino del proibito) siano temi a me molto cari, che non smettono di incuriosirmi.
(Per chi volesse rinfrescare la memoria, ecco la favola in tutta la sua terrificante bellezza: Barbablù)
Barbablù, è un uxoricida e un serial killer. C’è poco da stare allegri. Ma, allo stesso tempo, è un personaggio che trovo misterioso e complesso, con una natura ambigua e crudele, a tratti stranamente umana. Perché affida alla moglie un mazzo di chiavi chiedendole di non usarle? Vuole metterne alla prova la fedeltà o, semplicemente, avere un pretesto per disfarsi di lei? È un pazzo omicida, o ci sono motivi più profondi a muovere la sua sete di sangue?
Jane Nickerson cerca di rispondere a queste domande e riprende questa favola nel suo romanzo d’esordio, La camera di sangue, in libreria da qualche settimana. Capirete che non potevo non leggerlo!
Soddisfatta di questa rivisitazione? Nì.
La camera di sangue è un romanzo mediocre, con una narrazione zoppicante e, a tratti, fin troppo infantile. La storia, però, è intrigante.
Sophia Petheram, la protagonista, ha diciassette anni quando, dopo la morte del padre, va a vivere con il suo padrino e tutore legale, monsieur Bernard de Cressac, un ricco amico di famiglia. De Cressac è un uomo sulla quarantina, terribilmente affascinante, mostruosamente ricco e quattro volte vedovo. Tutte le sue defunte mogli avevano i capelli del colore delle foglie in autunno, come quelli della giovane Sophia. La ragazza, inizialmente, resta offuscata da tanta ricchezza e opulenza, dai modi galanti e affascinanti del suo padrino, un uomo che ha girato il mondo e che parla con uno stupendo accento francese (a me ha ricordato molto il Jean-Claude della Hamilton^^). Solo con il passare dei mesi inizierà a rendersi conto che qualcosa di torbido e malvagio è celato sotto all’oro e agli stucchi dell’immensa dimora di Monsieur de Cressac. E che lui stesso, dietro i modi affabili e premurosi, nasconde lati di sé sinistri e alquanto spaventosi…
Ambientato nel Sud degli stati uniti alla metà dell’Ottocento, La camera di sangue tocca temi interessanti come la condizione della donna e la fuga degli schiavi verso il Nord tramite la Ferrovia sotterranea, ma solo di sfuggita, e solo superficialmente. Anche i personaggi sono poco approfonditi e, a tratti, fin troppo contemporanei nel modo di parlare e negli atteggiamenti (soprattutto Sophia, molto più simile a un’adolescente dei giorni nostri che a una morigerata signorina vittoriana). De Cressac esce un po’ meglio, ma non buca la pagina come dovrebbe. È di certo un personaggio ricco di fascino, ma è un fascino un po’ greve, poco fine. Un uomo tanto furbo da riuscire ad assassinare tutte e quattro le mogli e a farla sempre franca avrebbe dovuto essere più sottile, secondo me. Più subdolo, ecco.
Insomma, poteva essere un romanzo grandioso, ma la scrittura lo penalizza un po' e anche l’elemento misterioso e inquietante passa in secondo piano, assorbito dalle descrizioni di vezzosi abiti e dalle, spesso frivole, considerazioni della protagonista. Il finale, poi, appare sbrigativo e troppo superficiale, pur mantenendosi perfettamente in linea con la favola. Peccato dunque, perché le intenzioni erano davvero ottime.
Tre stelline e mezzo. Una bella storia, ma poteva essere raccontata meglio.
venerdì 8 novembre 2013
Le stanze buie: la recensione di Carlo
Ci sono persone che ti sorprendono, che ti fanno sorridere e ti commuovono anche un po'. Sono quelle persone che nella casella dei messaggi ti lasciano parole come queste:
'Ciao Francesca! Volevo dirti che ho finito di leggere il tuo libro e mi è piaciuto molto... davvero tanto! Mi piacerebbe scriverne una recensione anche per darti una mano a pubblicizzarlo, perché lo meriti; io ho un blog ma si occupa di tutt'altro (informazione giuridica), se vuoi puoi pubblicarla sul tuo blog, o passarla ad altri!'
E così ho fatto. Lui si chiama Carlo, è un appassionato lettore e questo è il suo blog:
Matti da legale.
Ecco la sua recensione al mio romanzo:
"Che ne è stato delle storie, nei romanzi? Dove sono finite le trame da ricordare, i personaggi da tenere dentro anche dopo che l'ultima pagina del libro si è chiusa? Me lo domando spesso, specialmente se mi capita di leggere gli scrittori italiani delle ultime generazioni: nel tentativo di risultare originali ad ogni costo, cercano lo stile, il colpo di teatro verbale, a volte con risultati imbarazzanti. Così i lettori non trovano più le storie, né la capacità di raccontarle senza il bisogno dello stile a tutti i costi: perché la padronanza della lingua nel raccontare, a volte, fa centro come una freccia. Più dello stile, più dell'originalità, la padronanza delle parole è uno stile di per sé.
Qualche tempo fa mi è capitato questo libro tra le mani: copertina elegante, note sul risvolto semplici e di presa immediata, una frase estratta dal romanzo e piazzata sul retro a sostituire quelle sinossi che spesso servono più a chi vuol recensire senza leggere che al lettore curioso. E un titolo che dice e non dice: "Le stanze buie".
L'autrice è Francesca Diotallevi, milanese trapiantata a Roma, che sulle note ci anticipa poco di sé come ci si aspetta da chi vuol far parlare il suo primo libro.
E allora facciamo parlare le stanze buie di questo romanzo: dicevamo della bellezza della storia. Francesca ci racconta di un maggiordomo puntiglioso e impeccabile, figura d'altri tempi, che per una questione ereditaria si trasferisce al servizio di una famiglia delle Langhe, lasciando la ben più aristocratica Torino. Nella sua nuova sistemazione, troverà una serie di persone e di avvenimenti che cambieranno per sempre la sua vita.
L'Autrice ci spinge con forza nella narrazione, con una mano abile e - lo dicevo sopra - pienamente capace: le parole sono scelte con una cura naturale, mai ostentata e sempre funzionale al racconto. Il lettore troverà spesso un vocabolario preso da un tempo ormai passato, con un fascino innegabile che stona quasi con la ricerca ossessiva di modernismo e post-modernismo propria dell'arte di questi ultimi anni.
La storia oscilla su più generi letterari, mantenendo inalterato il registro: un grande pregio che rende compatta e coerente la lettura, facendo apprezzare ancor di più la capacità narrativa di tenere sotto controllo il racconto, impresa non facile quando si sceglie il racconto in prima persona. Il lettore si sposta avanti e indietro negli eventi, sfiorando il tema della circolarità del tempo e godendo di una serie di sensazioni che lo coinvolgono su più lati: come potremmo avvertire i profumi di un tempo che non viviamo, se non grazie alla parola? E di profumi questo romanzo ne sprigiona molti.
Così, le stanze buie della casa che fa da teatro agli eventi diventano un luogo nel quale cercare i sentimenti: non è forse una stanza chiusa il cuore del protagonista, che sembra aver sepolto in soffitta ogni forma di affetto per sé e per gli altri, in nome di un'etichetta che gli deriva dal suo ruolo sociale? E poi: vale sempre la pena far entrare la luce dove l'ombra del tempo ha deciso di calare il suo mantello? Non si rischia di venirne inondati fino a non vedere più nulla, proprio come quando ci si trova in una stanza buia?
Quando una storia e dei personaggi così veri riescono a lasciarti queste domande vuol dire che il loro inventore ha fatto davvero un ottimo lavoro, e Francesca ha limato ogni cosa in modo preciso, da artigiana della parola. In questo tempo di deserti letterari, vi pare poco?
Un piccolo appunto personale: tra i ringraziamenti, l'Autrice ha citato alcune sue influenze, ma il lettore poi è libero di fantasticare e io ho sentito qualche retrogusto di Moravia e del suo "Gli indifferenti", nelle pose dei personaggi, nella capacità di delinearne i tratti psicologici più con le loro azioni che con le parole o con le introspezioni; anche il piacere di ritrovare questi ingredienti, che magari l'Autore non ha mai preso in considerazione, è una soddisfazione che pochi libri sanno dare."
'Ciao Francesca! Volevo dirti che ho finito di leggere il tuo libro e mi è piaciuto molto... davvero tanto! Mi piacerebbe scriverne una recensione anche per darti una mano a pubblicizzarlo, perché lo meriti; io ho un blog ma si occupa di tutt'altro (informazione giuridica), se vuoi puoi pubblicarla sul tuo blog, o passarla ad altri!'
E così ho fatto. Lui si chiama Carlo, è un appassionato lettore e questo è il suo blog:
Matti da legale.
Ecco la sua recensione al mio romanzo:
"Che ne è stato delle storie, nei romanzi? Dove sono finite le trame da ricordare, i personaggi da tenere dentro anche dopo che l'ultima pagina del libro si è chiusa? Me lo domando spesso, specialmente se mi capita di leggere gli scrittori italiani delle ultime generazioni: nel tentativo di risultare originali ad ogni costo, cercano lo stile, il colpo di teatro verbale, a volte con risultati imbarazzanti. Così i lettori non trovano più le storie, né la capacità di raccontarle senza il bisogno dello stile a tutti i costi: perché la padronanza della lingua nel raccontare, a volte, fa centro come una freccia. Più dello stile, più dell'originalità, la padronanza delle parole è uno stile di per sé.
Qualche tempo fa mi è capitato questo libro tra le mani: copertina elegante, note sul risvolto semplici e di presa immediata, una frase estratta dal romanzo e piazzata sul retro a sostituire quelle sinossi che spesso servono più a chi vuol recensire senza leggere che al lettore curioso. E un titolo che dice e non dice: "Le stanze buie".
L'autrice è Francesca Diotallevi, milanese trapiantata a Roma, che sulle note ci anticipa poco di sé come ci si aspetta da chi vuol far parlare il suo primo libro.
E allora facciamo parlare le stanze buie di questo romanzo: dicevamo della bellezza della storia. Francesca ci racconta di un maggiordomo puntiglioso e impeccabile, figura d'altri tempi, che per una questione ereditaria si trasferisce al servizio di una famiglia delle Langhe, lasciando la ben più aristocratica Torino. Nella sua nuova sistemazione, troverà una serie di persone e di avvenimenti che cambieranno per sempre la sua vita.
L'Autrice ci spinge con forza nella narrazione, con una mano abile e - lo dicevo sopra - pienamente capace: le parole sono scelte con una cura naturale, mai ostentata e sempre funzionale al racconto. Il lettore troverà spesso un vocabolario preso da un tempo ormai passato, con un fascino innegabile che stona quasi con la ricerca ossessiva di modernismo e post-modernismo propria dell'arte di questi ultimi anni.
La storia oscilla su più generi letterari, mantenendo inalterato il registro: un grande pregio che rende compatta e coerente la lettura, facendo apprezzare ancor di più la capacità narrativa di tenere sotto controllo il racconto, impresa non facile quando si sceglie il racconto in prima persona. Il lettore si sposta avanti e indietro negli eventi, sfiorando il tema della circolarità del tempo e godendo di una serie di sensazioni che lo coinvolgono su più lati: come potremmo avvertire i profumi di un tempo che non viviamo, se non grazie alla parola? E di profumi questo romanzo ne sprigiona molti.
Così, le stanze buie della casa che fa da teatro agli eventi diventano un luogo nel quale cercare i sentimenti: non è forse una stanza chiusa il cuore del protagonista, che sembra aver sepolto in soffitta ogni forma di affetto per sé e per gli altri, in nome di un'etichetta che gli deriva dal suo ruolo sociale? E poi: vale sempre la pena far entrare la luce dove l'ombra del tempo ha deciso di calare il suo mantello? Non si rischia di venirne inondati fino a non vedere più nulla, proprio come quando ci si trova in una stanza buia?
Quando una storia e dei personaggi così veri riescono a lasciarti queste domande vuol dire che il loro inventore ha fatto davvero un ottimo lavoro, e Francesca ha limato ogni cosa in modo preciso, da artigiana della parola. In questo tempo di deserti letterari, vi pare poco?
Un piccolo appunto personale: tra i ringraziamenti, l'Autrice ha citato alcune sue influenze, ma il lettore poi è libero di fantasticare e io ho sentito qualche retrogusto di Moravia e del suo "Gli indifferenti", nelle pose dei personaggi, nella capacità di delinearne i tratti psicologici più con le loro azioni che con le parole o con le introspezioni; anche il piacere di ritrovare questi ingredienti, che magari l'Autore non ha mai preso in considerazione, è una soddisfazione che pochi libri sanno dare."
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